Libri, pubblicazioni, progetti e premi. L’ultimo, in ordine di tempo, il “Piranesi Prix de Rome alla carriera”. Lo chiamano dappertutto e lo vogliono dappertutto Mario Botta, l’immagine della scuola ticinese, un talento che ha segnato l’evoluzione dell’architettura contemporanea e che oggi, superato il traguardo degli 80 anni di età, continua a essere uno degli architetti più influenti del panorama europeo.
Architetto Mario Botta, partiamo da una domanda soltanto all’apparenza facile. È felice?
“Vorrei tanto rispondere di sì. E invece provo un senso di disagio che non avevo mai vissuto prima. La pandemia, la guerra, questo costante senso di incertezza: la mia generazione non è stata abituata a tutto ciò. Noi siamo i figli dell’opulenza, della società dei consumi, della fine di un’epoca. Avverto quotidianamente questo senso di malessere del mondo e ne soffro. Non sono capace di liberarmene”.
E questo come si riflette nella sua attività professionale?
“In una frase potrei rispondere che non ho mai lavorato così tanto per combinare così poco. stazione: siamo cresciuti con l’idea, o forse era solo una illusione, che la società avesse ancora bisogno di qualcosa, di valori. Perché ora, invece, si dovrebbe costruire? Per poi fare le guerre e demolire tutto? Non riesco a rimanere indifferente alle immagini di morte e distruzione che vediamo scorrere in televisione. Città intere svuotate della loro anima sono macabre scenografie. Inevitabilmente, ho caricato sempre il mio lavoro di molti significati simbolici. E così come ‘mi sembrava di toccare il cielo con un dito’ quando riuscivo a creare uno spazio di tensione, come un museo o una chiesa, ora tutta questa violenza, sull’uomo e sul lavoro prodotto dall’uomo, mi fa male. Per fortuna resiste il desiderio”.
In che senso?
“Verrebbe quasi da dire che non si capisce perché si debba lavorare. Per mangiare? Non può essere l’unica risposta. Ho sempre lavorato per passione, perché non potevo fare altro. Non ho mai fatto vacanze, non so cosa siano. Il lavoro è la mia gioia, non ho mai sentito il bisogno di “staccare la spina”. Ora mi rendo conto di quanto sia stato un privilegio fare sempre quello che ho amato. Ho avuto una fortuna straordinaria: poter lavorare con furore. E lo devo innanzitutto ai miei numerosi maestri, che hanno plasmato il mio spirito di vita in un periodo in cui l’architettura cresceva ovunque, senza nemmeno il bisogno di cercarla”.
Quanto conta la formazione?
“L’uomo è modellato dai suoi maestri e dagli incontri con altri uomini. E io, lo ripeto, ho avuto una fortuna straordinaria, perché ho incontrato personaggi come Giacometti, Le Corbusier, Kahn, Scarpa e ho avuto il privilegio di interpretare il loro mondo. Si figuri che, negli anni Novanta a Zermatt, con Garcia Marquez e Bob Wilson ho trascorso tre giorni interi a parlare di creatività in un convegno organizzato da un medico psicanalista, un matto che si era messo in testa di scoprirne le ragioni”.
Com’è cambiata l’architettura da allora?
“Noi siamo cresciuti con il concetto che si costruiva attraverso una proprietà conosciuta, che oggi non esiste quasi più perché, quando arrivano le commesse, dietro c’è il fondo di investimento, una ragione unicamente finanziaria. Milano è l’archetipo di questa struttura moderna che toglie anima e motivazione al costruire. Perché dovremmo migliorare la città, che è il luogo collettivo per eccellenza, senza il riconoscimento della committenza? Il consenso è per l’architetto, così come per l’artista, un momento imprescindibile. Così come è irrinunciabile possedere una coscienza critica. Il mio è un lavoro che la esige: si costruisce per, non si può costruire contro qualcosa o qualcuno. L’edificazione possiede un’accezione positiva, per trasformare, con una pietra sul terreno, un pezzo di natura in un pezzo di cultura. Dello spirito e delle conquiste che non sono mai personali, ma che interpretano la storia del proprio tempo”.
MARIO BOTTA ARCHITETTI
MENDRISIO
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